Leonardo

Fascicolo 10


Risposta a Benedetto Croce
di Gian Falco (Giovanni Papini)
pp. 10-11


p. 10


p. 11


            Carissimo Croce,
  
(1) Lei è un uomo ardito, coraggioso, valoroso, — diciamo di più: temerario. Non contento di attaccare i famosi non teme di lodar degli oscuri, e dopo aver detto il fatto loro a dei vecchi si spinge fino a discutere con dei giovanissimi. Ella esce troppo, mi permetta il dirglielo, dalle consuetudini italiane, e non solo italiane, che hanno per fondamento il venerabile obsequium per la senilità e il silenzio per le «ragazzate» di coloro che vengon su. Ella s'è un po' troppo dimenticato che abbiamo poco più di vent'anni e che scriviamo dei paradossi. Si vede subito, cento miglia lontano, che lei non è un professore di università. Nessuno di quei carissimi e chiarissimi fornitori di sapere avrebbe preso sul serio, in una rivista seria, quei nostri nove fogli di carta a mano, ricoperti d'incisioni in legno e di frasi pazze, oscure o violente. Il Leonardo non era nè abbastanza antico, nè abbastanza pesante per dare argomento di recensioni.
   Lei, invece, non ha mostrato paura, non ha temuto di scapitare in dignità e l'ha letto e n'ha scritto. E per farci cosa più grata, Ella ha fatto, oltre che delle lodi, delle critiche, e a queste, poichè amo troppo le mischie, mi offro oggi il piacere di rispondere.

*
* *

   La concezione nostra che la separa da noi, quella che addirittura non le va giù, è quella del giuoco. Con essa, dice Ella, tendiamo a sottrarci alle esigenze della vita, ed anzi a foggiare una nuova vita, diversa dalla reale. E ricorda l'esaltazione romantica, l'ironia fichtiana non senza far appello al buon Vico. Ella afferma «che la filosofia deve riuscire all'accordo colla vita, e perciò, se è vera la concezione idealistica, la formula pratica del giuoco non può essere stata se non malamente dedotta da essa, cioè capricciosamente» (p. 289). Insomma la nostra volontà non può riuscire a modificare la nostra vita, e il capriccio è identico al male.
   Veramente tutto ciò, quando io scrivevo i Piccoli e grandi giuochi non lo sospettavo neppure. Credevo, e lo credo ancora, che l'avere della vita una concezione diversa della comune, o che l'esser cosciente delle ragioni e de' fondamenti della comune, fosse già un' altra vita, una vita egualmente reale e pur diversa dall'altra.
   Quando io so che niente è serio a questo mondo, la mia serietà, che io metterò fuori all'occasione, è molto diversa da quella degli altri. Non si tratta di fare addirittura una vita completamente nuova, ma di cambiare più che si può quella che abbiamo. Si tratta, appunto, di comprendere la vita in un certo modo particolare, e questa comprensione, questa coscienza Ella sa bene ch'è sufficiente a trasformare quello che i tormentati Russi chiamano il «senso della vita.»
   Io non dico: tutti debbon giuocare, ma dicevo: tutti giuocano. Alla realtà ho aggiunto la consapevolezza di questa realtà e questa mi s'è mutata senza altro.
   E non basta: la teoria del giuoco dà una larghezza di vita che non è data dal volgare dilettantismo. Coi piani di conoscenza noi abbiamo, nello stesso tempo, le concezioni più diverse, le credenze più opposte ma che tutte convergono, come ho scritto, a far della nostra vita il nostro capolavoro. Cioè io non mi fabbrico un'altra vita, ma godo tutte insieme le vite reali, già esistenti: e le fo succedersi, e le fo servire, e tutto ciò è giuoco. Cogli elementi dati noi viviamo più degli altri, col semplice intendere questi elementi noi diamo loro un nuovo colorito. Questo e non altro volevo dire nè so vedere come c'entrino «i circoli romantici tedeschi del principio del secolo XIX» (p. 288). Piuttosto io ci vedrei qualcosa come un banchetto di sofisti che hanno letto Kant.
   E non so capire neppure come il povero capriccio sia così dispregiato da lei.
   Il capriccio è sentimento ed è libertà: due belle cose, a cui teniamo assai. E molte di quelle deduzioni che nei libri di scienza ci sembrano il colmo della razionalità non son viste necessarie che in forza di sentimenti o di arbitri comodi. Non c'è che la vecchia morale, vedova inciprignita da che ha perduto il suo sposo prediletto, il Raziocinio, che ce l'abbia col capriccio. Noi vogliamo fare, grazie a Dio, della filosofia viva e non della logica smorfiosa. E appunto perchè facciamo una tal filosofia riusciamo all'accordo colla vita. Il nostro pensiero è l'espressione della nostra vita, e se il nostro pensiero è diverso da quel degli altri significa che la nostra vita è pur diversa, e se il nostro pensiero è capriccioso sarà capricciosa la nostra vita. Appunto seguendo Vico non vogliamo che la ragione ragionante ci costringa a fare quel che non ci piace. La tal deduzione ci sembra comoda e bella e noi la facciamo: toccherà poi al nostro io sillogizzante di metter le cose d'accordo.
   Così io potrei risponderle che il nostro disdegno per le questioni pratiche non è che l'espressione di uno dei nostri me, del me solitario, cogitabondo, mistico, il quale, in certe ore, ama sorridere di questi vani avvolgimenti di bestie in cerca di preda. Ma potrei dirle che c'è un altro me, che si occupa anche d'azione, e ne darà presto qualche prova, combattendo appunto quei socialisti, che sono, nella vita sociale, i più fortunati rappresentanti del materialismo volgare, filosofico ed economico.
   E vorrei anche dirle che il mio odio della dimostrazione va contro al significato che le si dà e non ad essa medesima. Poichè io intendo la frase «descrizioni di stati intellettuali» non nel senso che ci debbano entrare elementi intuitivi, ma in quello di riprodurre colle parole le associazioni che noi facciamo seguendo le nostre abitudini mentali, i nostri interessi, i nostri sentimenti. Perciò, in essa, non c'è niente di assoluto, niente di obiettivo, niente di universale, come di solito si crede. Una dimostrazione, insomma, è una confessione personale, non è un battesimo universale. Noi descriviamo noi stessi e non possiamo far niente di più.
   E quest'ultima frase serve anche a risponderle circa i consigli che ha la bontà di donarci. Ella sostiene che non basta aver conquistato la veduta idealistica ma che bisogna estenderla, applicarla, lavorarla, discuterla. Ed è quello che noi andiamo facendo, magari giungendo anche al di là dell'idealismo.
   Ma crediamo che i consigli non valgano moltò più della logica. Degli uni e dell'altra ascoltiamo e riteniamo quel che ci conviene e ci s'adatta. E ci sembra che il far cose più concrete non sia impedito dal nostro concetto di giuoco. Faremo degli studi, delle ricerche, delle discussioni e magari della bibliografia, ma sempre colla stessa coscienza di fare un bel giuoco, che potremo lasciare o mutare a nostro piacimento.
   Intanto abbiamo cominciato qualcosa di simile in questo risorto Leonardo e ci proponiamo di continuare. Cosa ne pensa lei, carissimo Croce?
   Seguiti a volerci bene e conservi tutto il suo coraggio per leggere gli articoli del suo aff.mo

GIAN FALCO.

Firenze, 10 Novembre, 1903.

(1) V. La Critica, anno I, fasc. IV, 20 luglio 1903, pp. 287-291.



Articolo apparso su La Critica
di Benedetto Croce
pp. 287-291


p. 287


p. 288


p. 289


p. 290


p. 291


Gli scrittori del Leonardo sono legati tra loro da una concezione filosofica, ch'è l'idealismo, appreso specialmente nella forma che gli va dando uno dei più fini pensatori frantesi contemporanei, il Bergson, quale filosofia della contingenza, della libertà, dell'azione. E sono scrittori vivaci e mordaci, anime scosse ed inebriate per virtù d'idee; non pedestri infilzatori di brani e di periodi altrui con frigidi commenti proprii, a scopo scolastico e professionale, quali di solito coloro che riempiono le riviste filosofiche. Ciò non può non attirare fortemente la nostra simpatia. Il lor duca firma col pseudonimo di «Gian Falco»: si vedano i suoi articoli, davvero belli, L' ideale imperialista, Me e non me, Verso il Buddha Siddharta, Piccoli e grandi giuochi, e così via, quasi in ogni numero. E si notino anche quelli firmati col pseudonimo di «Giuliano il Sofista»: Vita trionfante, L'Uomo-dio, La miseria dei logici, Alle sorgenti dello spirito; e specialmente i varii di critica estetica segnati (questo non è pseudonimo) da G. A. Borgese(1); per non dire degli altri parecchi pur degni di nota. Ma appunto la simpatia che questi scrittori ci destano, il loro non comune ingegno e la loro coltura, il plauso che diamo a tante delle loro vedute e giudizii, c'invitano a muovere un'osservazione, che nasce da cordiale interessamento per l'opera loro. L'idealismo filosofico è andato e va incontro ad un pericolo. A dir propriamente, è un pericolo non già dell'idealismo, ma degli idealisti: comunque sia, consiste in questo. La rivelazione che l'idealismo fa coll'additare nello spirito, nella libertà la realtà nella sua pienezza, e la conseguente limitazione che impone alla realtà empirica e alla scienza deterministica e materialistica, esaltano facilmente gli animi, sino a far dimenticare che quella rivelazione stessa ha il suo limite: un limite, se si vuole, inferiore, non superiore, ma un limite. L'idealismo, nel superare intellettualmente l'empirismo e il naturalismo, non può abolirli, altrimenti abolirebbe sè medesimo. Esso, in altri termini, è volto a comprendere la vita, non già a foggiare una vita diversa dalla reale. E comporsi una vita sui generis, diversa dalla reale, è stata una delle aberrazioni degli idealisti, come si vede ripensando, per esempio, ad alcuni circoli romantici tedeschi del principio del secolo XIX. Gli scrittori del Leonardo si accorgono della vacuità ed assurdità delle varie formule di vita, che sono apparse negli ultimi tempi. Anzi, la loro rivista si apre con una felicissima critica del cosiddetto Imperialismo, e «Gian Falco» mostra che esso non è nè individualista, nè aristocratico, nè moderno; che rappresenta un ideale angusto e barbarico; ch'è un sogno meschino, brutale ed equivoco di dominazione materiale degli uomini. E lo stesso «Gian Falco» critica il dilettantismo dei contemplatori, mostrando che chi s'illude di poter nella vita far da spettatore, è egualmente attore, ma incosciente e con parte secondaria. Ed esamina il movimento buddistico contemporaneo, provando che nè il buddismo è antispeculativo nè è pessimista, anzi è ottimista poichè promette con certo suo metodo la liberazione e la beatitudine; onde dice argutamente che verso le seduzioni del Buddha, il rimedio è di essere Buddha, cioè desti! Gli scrittori del Leonardo «aspirano a preda più vasta e degna: all'Imperio intellettuale di tutte le essenze dell'universo». Il loro imperialismo, se tale può dirsi, «ha essenzialmente dei fondamenti gnoseologici e un colorito puramente intellettuale». Ciò posto, dovrebbero concludere che essi accettano la vita qual'è. Ma l'esaltazione romantica, e forse anche un po' il gusto di epater le bourgeois (un dei loro ricorda questa frase), li inducono invece a prendere, di fronte alla vita, l'atteggiamento dí gente che sa sottrarsi alle esigenze di essa. La loro formula è: il giuoco. «Poiché bisogna recitare a ogni modo, che gli attori sappiano di esser commedianti e nulla più». «Questa borghese monotonia è cosa che mi affligge mediocremente da che io posso, in me stesso, provocare dei meravigliosi mutamenti, sol col cambiare i punti di vista e i piani di conoscenza. Mentre nel piano puramente e strettamente gnoseologico io sono mono-psichista, nel piano della scienza comune e delle relazioni sociali, che sono tutte e due fondate sullo spazio, io ammetto l'esistenza di altri spiriti, di altri esseri, al di fuori di me, coi quali parlo e sui quali agisco.» La stessa loro rivista è un giuoco: e se le regole del giuoco l'imporranno, essi indosseranno anche il grigio mantello di quella serietà, che sopra ogni cosa aborriscono. «Ma sotto le melanconiche apparenze di un artista pensionato o di un filosofo ufficiale, vivrà sempre in noi il piccolo gaio troll che anima la nostra giovinezza, e attraverso le gravi parole e le formule d'uso udremo ancora e per sempre il riso profondo dell'eterno giuocatore». Io non voglio ora ripercorrere le vicende del vocabolo giuoco, infelicemente introdotto dallo Schiller nella filosofia, nè indicare precedenti storici di questa veduta del giuoco, introdotto nella vita, risalendo all'ironia dei fichtiani e simili, od anche più indietro, a certe forme di misticismo. Nè sillogizzerò che una recita, un'apparenza, una maschera, la quale ha carattere di necessità («poichè bisogna recitare a ogni modo...») non può essere nè recita, nè apparenza, nè maschera. Ma dico che la filosofia deve riuscire all'accordo con la vita, e perciò, se è vera la concezione idealistica, la formula pratica del giuoco non può essere stata se non malamente dedotta da essa, cioè capricciosamente. E contro questi capricci per cui in luogo di spiegare la vita, poco filosoficamente si pretende di correggerla e di mutarla, mi piace ricordare alcune parole di un filosofo, che al profondo idealismo congiungeva italico buon senso: di Giambattista Vico. Il quale, in una certa orazione funebre che gli toccò di scrivere per una dama, dopo avere lodato in colei la valorosissima madre per le assidue cure che spendeva intorno ai figliuoli, esclama:
«Vengano ora a petto di questa filosofia i savj di Grecia, i quali o
«dentro i deliziosi orticelli degli Epicuri, o per le spaziose e magnifiche
«logge de' Zenoni, dipinte da' divini pennelli, o per gli lunghi e verdeggianti
«viali delle Accademie, piantati di vaghi ed ombrosi platani, e
«provveduti a dovizia di tutti i comodi umani, nè nauseati nè afflitti o
«da mogli che infantano, o da' figliuoli che ne' morbi languiscono, con
«tumor di parole
o con arguzie d'argomenti ragionano dell'imperio
«della virtù sopra il pazzo regno della fortuna: a cui per giungere,
«insegnano o pratiche di vita impossibili alla condizione umana, e con gli
«Stoici disumanarsi, e non sentir passione alcuna, o pericolose con gli «Epicurei da sette di filosofi a divenir brutte mandrie di porci, regolando
«i doveri della vita col piacere de' sensi, o dar leggi, e fondar «repubbliche nel riposo ed all'ombra, che non ebbero altrove luogo che nelle «menti degli Eruditi!»
   La vita quotidiana è cosa seria dacchè la fa l'uomo stesso con tutte le forze del suo spirito; e non c'è una vita esteriore (se non per modo di dire): ogni vita è, e dev'essere interiore. Perciò anche non ci riesce di comprendere il disdegno degli scrittori del Leonardo verso le questioni pratiche che affaticano gli uomini nella vita sociale. Che, dal punto di vista psicologico, si riconosca che preti, borghesi e socialisti son formati della stessa pasta, cioè sono uomini con passioni e miserie, sta bene: quantunque ciò non mi sembri una scoperta, e la meraviglia con cui è presentato abbia dell'ingenuo: che cosa volevate che fossero, preti, borghesi e socialisti, se non uomini? Ma, dal punto di vista storico, considerando i fenomeni di massa e misurando le forze rispettive, preti, borghesi e socialisti giustamente si differenziano; e l'incontrare «fra i camiciotti e i cenci rossi il profilo familiare di qualche furiere in ritiro e di qualche teologo da villaggio», non muta nulla alla cosa.
   La stessa spinta ad esagerare la portata della filosofia è nell'odio alla logica che professano gli scrittori del Leonardo. L'idealismo non può stabilirsi se non col riconoscere che la logica delle scienze naturali, coi suoi concetti di comodo e coi suoi criterii meccanici, è unilaterale e che diventa falsa quando vuol darsi per logica universale. Ottimamente. Ma la critica, che supera l'unilateralità, non deve diventare essa stessa unilaterale e negare nel fatto ciò di chi ha soltanto spiegato la natura in forza di un principio superiore. La critica dell'intelletto astratto — come Hegel lo chiamava — non eliminerà mai la funzione stessa dell'intelletto astratto, che è una formazione necessaria. «Gian Falco» irride la dimostrazione la quale infondo — egli dice — si riduce a semplici descrizioni di stati intellettuali. Ottimamente; e tanto peggio per quei logici che credevano che la verità si potesse produrre con un ingranaggio di dimostrazioni senza metterci nulla di descrittivo, cioè d'intuitivo. Ma, chiarita meglio l'indole della dimostrazione, si è perciò negato la possibilità di questa? O della dimostrazione si può far di meno? — «Gian Falco» è costretto anch'egli, voglia o non voglia, a dimostrare o a mostrare.
   Darò ancora un esempio piccino. Risuonano ancora agli orecchi i clamori di giubilo coi quali è stato accolto il telegrafo senza fili del Marconi. E non pochi hanno dato al Marconi la patente del più grande uomo del mondo; o hanno schernito la levità dell'arte e della filosofia in contrasto alla solidità della fisica marconiana. Gli scrittori del Leonardo reagiscono. «Il mandar dei dispacci senza fili, che ai grossi uomini sembra cosa quasi divina, cos'è se non sostituzione di mezzo materiale a mezzo materiale?». Chi è Guglielmo Marconi se non «un fortunato inventore di apparecchi per sfruttare scoperte già vecchie?». Che cosa sono le invenzioni tecniche se non «espedienti esteriori che rendono più rapida, ma non più profonda la vita?» — Giacchè molti sembravano dimenticare queste verità, bene essi hanno fatto a richiamarle alla coscienza e a determinar l'indole vera e i limiti dell'opera del Marconi. Ma un «inventore d'apparecchi» è poi da disprezzare? e a il render più rapida la vita n’è cosa addirittura senza efficacia sul diventare essa «più profonda?».
   E mi si consenta poi un'osservazione di altro genere. Io ho conosciuto alcuni dei vecchi idealisti napoletani, persone serie e tutte comprese della verità del principio idealistico. Ma essi erano come affascinati ed incantati da quella verità centrale del sistema, e non sapevano distogliere lo sguardo da essa per riportarla sulla realtà sottostante, e non altro vedevano al di fuori di quella verità centrale. Tale disposizione di spirito da mistici e da santi è stata, io credo, non ultima cagione della poca fecondità della loro opera. Del principio idealistico, una volta che si è conquistato, bisogna, perdio!, fare qualcosa. E da lavorare c'è assai! C'è da esplorare a parte a parte la complicata costituzione dello spirito, intenderne le svariatissime manifestazioni, distruggere analizzandoli gli errori continuamente rinascenti, costruire la storia del pensiero filosofico, contribuire a risolvere tutti quei problemi nei cui dati entra il concetto idealistico della realtà. Il filosofo deve avere la sua vita attiva, quella, beninteso, ch'è propria del filosofo. E perciò non può sdegnare ciò che gli altri uomini dicono, scrivono e stampano, nè saltare sui gradi pedagogici che bisogna salire scalino per scalino, nè lasciare intorno a sè le tenebre nella lieta persuasione che la filosofia idealistica possiede virtualmente la potenza di dissiparle. La filosofia dev'essere, sì, convinzione interna, ma dev'anche assumere forma di studio, di ricerca, di discussione, di bibliografia. Bisogna, insomma, guardarsi dal difetto, che direi, della genericità.
   I colti ed acuti scrittori del Leonardo possono mettersi sulla via feconda, e alcuni dei loro scritti mostrano già forma più concreta, ed io prevedo che, dopo un primo sfogo durato qualche mese, si stancheranno dal rifare la loro generica professione di fede e non vorranno, come anime devote, star phi a edificarsi l'un l'altro ripetendosi a vicenda le idee predilette. Che se a questa vita attiva da filosofi fosse impedimento il loro concetto della vita come giuoco, ecco una ragione di più per liberarsi prontamente di quella che non è una conseguenza della filosofia idealistica.

  (1) Assai di rado mi è capitato di leggere scritti di estetica cosi meditati e penetranti come questi del Borgese. Si veda, tra l'altro, nell'articolo Il Pascoli minore (n. 9) un'eccellente critica dell'armonia imitativa dei retori e dell'onomatopea, dei linguisti. Nell'altro, sulla vessata questione Metodo storico e metodo estetico (n. 6), il Borgese sostiene giustamente che non v'ha se non un sol metodo, quello storico, e non v' ha se non una sola critica, quella estetica. L'errore — egli dice — non sta nello studiare i fatti e i documenti e i codici: in ciò non è nulla di peccaminoso, come alcuni estetizzanti esagerando affermano. L'errore, la meschinità intellettuale, consiste invece nel credere che con quelle operazioni sole si faccia la storia dell'arte e della letteratura, o la storia positiva dello spirito umano: un vero ircocervo! O anche consiste nel dire che bisogna astenersi dalla sintesi (critica estetica, e storia vera della letteratura e dell'arte) perchè l'analisi non è ancora compiuta e la sintesi sarebbe prematura: «quasichè spettasse al tagliapietre d'indicare all'architetto il giorno in cui debbasi iniziare la costruzione»; e, finalmente, nel «chiamare acchiappanuvole il pensatore e soggettivismo — notate bene, che questa parola è per alcuni un insulto — la critica d'arte». Nell'articolo Nuova critica shakesperiana (n. 1) si svela l'artifizio e la vacuità della ordinaria critica drammatica condotta col criterio del contrasto. L'altro articolo, Immagine e parola (n. 4), è sotto l'influenza, se non c'inganniamo, delle idee estetiche del Bergson, e distingue la parola meccanizzata del linguaggio comune e diventata segno nella scienza, dalla parola, riportata alla sua vita primitiva per opera del poeta. Quantunque questa distinzione sia degna di molta meditazione, noi crediamo che, a chi ben la mediti, si chiarirà alla fine come inesatta, cioè illusoria, apparente e non reale: salvo che non si voglia intenderla all'ingrosso e in senso empirico, il che non sarebbe filosofico. Qualche riserva ci sembra anche di dover fare sulla definizione, che nel citato articolo sul Metodo storico e l'estetico dà il Borgese della personalità del critico, il quale non sarebbe, secondo lui, artifex additus artifici, ma artifex oppositus artifici. Che non di rado la riproduzione critica sia una neoformazione, un'opera d'arte tutta propria del critico, è vero; ma non v'ha alcuna intrinseca necessità perchè ciò sia; ed è un fatto che noi giudichiamo inferiori, come critici, coloro che a mo' del Ruskin fanno dell'arte propria sull'arte altrui, e superiori quelli, che, come il De Sanctis, danno un'immagine depurata dell'arte altrui.


◄ Fascicolo 10
◄ Giovanni Papini